Biblioteche take away

Bibliotheek gesloten / library closed
Bibliotheek gesloten / library closed by Herman Schouwenburg su Flickr

Take away: è proprio con questo anglicismo, che letteralmente significa “portar via” ma che oramai tutti noi associamo all’exploit dei cibi da asporto ed ai connessi servizi di food delivery, che le biblioteche di pubblica lettura, duramente colpite dalle restrizioni alla mobilità sociale adottate per contrastare la diffusione del Covid-19, stanno cercando di rilanciare, perlomeno nella mia regione, il proprio servizio principe, ovvero quello del prestito librario.

Ammetto che dal punto di vista comunicativo lo slogan sia efficace e di sicuro impatto, tale è l’immediatezza del messaggio e chiara la modalità di erogazione del servizio offerto, ma l’idea di assimilare l’operazione di prestito / restituzione di un libro (oggetto con connotazioni valoriali che non sto qui a ricordare) alla consegna a domicilio di una pizza, del sushi o, esempio ancora più calzante, al “ritiro” di hamburger e patatine al McDrive non riesco proprio… a digerirla!

Ma al di là delle scelte comunicative, che possono piacere o non piacere, il punto focale della questione è un altro e decisamente ben più grave. Se il servizio di take away librario può essere interpretato come un tentativo di risposta, ed in questo senso anche come un moto di vitalità, delle biblioteche di pubblica lettura alle prese con questo secondo lockdown, nel contempo ci costringe ad una seria riflessione sulla tenuta complessiva del sistema così come è stato costruito negli ultimi anni.

Fino allo scoppio della pandemia da Coronavirus più o meno tutti vivevamo nella convinzione di aver costruito sistemi bibliotecari sufficientemente strutturati e “ridondanti” (in termini di patrimonio documentario, risorse umane e dotazioni tecnologiche), tali per cui la chiusura di una o più biblioteche del sistema (nodi), non avrebbero sostanzialmente intaccato l’erogazione del servizio ed il suo livello qualitativo.

Pace se l’unico bibliotecario (magari un “precario” dipendente di una cooperativa) si ammalava o andava in ferie, pace se non era stato acquistato o se non era disponibile nella nostra biblioteca di riferimento il libro da noi ricercato, pace se i suoi orari di apertura non erano in linea con le nostre esigenze, pace se… L’appartenenza ad una rete bibliotecaria più ampia, diffusa in modo capillare sul territorio, più “ricca” in termini di personale e di patrimonio documentario, sopperiva alle carenze della singola biblioteca/nodo (esito di anni di pressocchè generale disinteresse da parte degli amministratori, di mancato turnover, di tagli ai fondi…)!

Il Covid ha spazzato via tutte queste certezze: il primo lockdown ha visto un azzeramento dall’oggi al domani dei servizi bibliotecari: chiuse le biblioteche ed a casa i bibliotecari (tanto più in caso di esternalizzazione del servizio), stop a prestiti e restituzioni, stop a qualsiasi attività che prevedesse una qualche forma di interazione fisica (alla faccia della biblioteca come punto di riferimento per la comunità), stop praticamente a tutto!

Da sottolineare che la ripartenza di maggio, lenta e limitata ai servizi basici di restituzione / prestito, è resa possibile grazie a forme di volontariato (spazianti dagli amici della biblioteca, alla Protezione Civile ai giovani del paese) che prodigandosi in encomiabili attività di porta a porta consentono da un lato di recuperare i libri rimasti fuori sin dai giorni del lockdown, dall’altra di consegnare ai cittadini / utenti, bloccati in casa, almeno un bel libro per una buona lettura. Si trattava, va inoltre evidenziato, di una ripartenza a mezzo servizio: di circolazione interbibliotecaria non se ne parla (con le evidenti ripercussioni negative circa la possibilità di accedere a risorse “altre” che vadano al di là del posseduto) e men che meno di riaprire al pubblico gli spazi della biblioteca!

Per questi ultimi bisogna aspettare la bella stagione (benché distanziati, con mascherina, con accessi contingentati, etc.), ma altro non è che un veloce intermezzo. La seconda ondata, scandita dal progressivo accentuarsi delle restrizioni, è infatti dietro all’angolo e manda nuovamente in crisi il sistema bibliotecario, impossibilitato a mettere in campo delle adeguate contromisure.

La questione cruciale a mio avviso è che quelli che erano (sono) i capisaldi irrinunciabili, i punti di forza ed in ultima analisi i valori fondanti delle biblioteche (l’apertura, il ruolo “sociale” a supporto della comunità, la dimensione di servizio, etc.) diventano altrettanti punti di debolezza nel momento in cui i contatti interpersonali devono essere tendenzialmente azzerati. Il ricorso all’accattivante slogan del take away, dunque, rappresenta il comprensibile tentativo di ricordare (agli utenti, agli amministratori pubblici ed in generale a tutte le figure che attorno ad essa ruotano) che la biblioteca c’è e non rinuncia al proprio ruolo, riposizionandosi non a caso su quello che in ultima analisi è il suo compito primario: dare, benché con modalità di contatto “mordi e fuggi”, a ciascuno il suo libro.

PS Nei giorni più duri del primo lockdown a reggere erano quelle biblioteche / quei poli bibliotecari, per fortuna sempre più numerosi, che hanno investito e scommesso nel digitale: l’essere in grado di offrire risorse digitali, l’aver sviluppato per tempo canali di comunicazione ed interazione social ha consentito (benché in favore di un utenza numericamente più ristretta) di continuare la propria operatività. L’accelerazione verso il digitale data dal COVID alla nostra società (dalla didattica a distanza nelle scuole alla maggior confidenza con gli acquisti di beni e servizi digitali – non solo film e musica su piattaforme in streaming, ma anche ebook -, le call, etc.) c’è da scommettere rappresenterà uno dei principali lasciti, obbligando le biblioteche – i cui operatori, che potremmo grossolanamente dividere tra progressisti e conservatori, da anni si accapigliano su queste tematiche – a rompere gli indugi e ripensare e rimodellare sé stesse.

Sul libro come commodity

storylines
Storylines – study with wire and book / di Ines Seidel (su Flickr)

Sarà capitato oramai a quasi tutti voi di incappare, mentre camminate per le vie, nei parchi, nelle piazze, etc. della vostra città in quelle graziose casette di legno contenenti un paio di dozzine di libri più o meno vecchi. Sono le cosiddette “casette dei libri” il cui funzionamento grossomodo è il seguente: posso prendere in prestito un libro dalla casetta a patto che a mia volta ne lasci uno, mettendolo a disposizione di altri lettori, ed impegnandomi, al termine della lettura, a riconsegnarlo (ho usato termini tipici dei regolamenti delle biblioteche, ma in verità non c’è nessuna forma di controllo sulla restituzione né tantomeno vi è necessità di essere iscritti ad alcunché). Il principio su cui si basano le casette dei libri, perlomeno la maggior parte di quelle spuntate come funghi su e giù per l’italica penisola, è infatti quello della fiducia tra lettori con l’oggetto libro inserito in una prospettiva sostanzialmente social(e). Bisogna infatti precisare che il fenomeno delle “casette dei libri” deriva dal progetto Little Free Library portato avanti su scala globale dall’omonima organizzazione nonprofit, sorta con lo scopo di ” inspires a love of reading, builds community, and sparks creativity by fostering neighborhood book exchanges around the world”. Come si intuisce ben presto navigando nel sito ufficiale dell’iniziativa, quest’ultima è assai più strutturata ed articolata rispetto alle concrete realizzazioni nostrane, che a ben guardare hanno fatto proprio il modello ma nella maggior parte dei casi senza “affiliarsi” (o, se vogliamo, vincolarsi) al progetto-madre.

Ciò non toglie che un paio di riflessioni non si possano fare dall’analisi del fenomeno delle little free library.

La prima è che, tanto per cambiare, le nostre amate biblioteche sono tagliate fuori dal progetto, che anzi, per via del suo funzionamento assolutamente “libero” (come già ricordato non è prevista alcuna iscrizione degli utenti, dei prestiti non vi è alcuna traccia né del resto i libri sono oggetto di catalogazione) e del suo modello diffuso e capillare nel territorio (in opposizione a quello di magazzino centralizzato) appare quasi geneticamente agli antipodi. Tale distacco è tanto più sorprendente se si pensa come, sempre in riferimento al caso italiano, a farsi promotrici delle “casette dei libri” sono spesso e volentieri le medesime amministrazioni comunali presso le quali sono incardinate la maggior parte delle biblioteche di pubblica lettura. A mio avviso, benché nell’ottica di avvicinamento e promozione della lettura le due iniziative possano coesistere ed anzi risultare complementari (andando le “casette dei libri” ad avvicinare quell’utenza che mai metterebbe piede in biblioteca), è necessario pensare ad un livello di coordinamento, o ancor meglio di regia, dell’iniziativa. Ad esempio non sarebbe male se i libri messi a disposizione nelle casette, anziché essere (questo è purtroppo quello che ho potuto constatare personalmente in più realtà) vecchi, malmessi e buttati lì alla rinfusa, facessero riferimento ad una sorta di “piano delle raccolte”: in un quartiere con problemi di integrazione potrebbero essere messere libri sull’argomento, a livello di città potrebbe esserci un filo conduttore nei testi messi a disposizione magari rispetto a mostre ed eventi in corso. L’esempio appena riportato ci conduce ad un altro nodo critico del sistema, vale a dire la sua alimentazione. Se in linea teorica esso dovrebbe mantenere il suo “equilibrio” in virtù del sostanziale pareggio tra volumi presi in prestito e volumi lasciati nella casetta, all’atto pratico ritengo tale ipotesi di difficile realizzazione non fosse altro per il naturale “decadimento” dei libri (tanto più se questi ultimi – per quanto riparati nelle loro casette – non sono sicuramente conservati in condizioni ottimali) oltre che per il fisiologico, ed inevitabile, tasso di smarrimenti e mancate restituzioni. Anche in questa fase, credo, l’istituzione bibliotecaria possa fare la sua parte, ad esempio veicolando (meglio se con un minimo di selezione) verso le free little library le donazioni che frequentemente i cittadini fanno delle loro raccolte, oramai divenute ingombranti, oppure destinando ad esse una quota dei libri altrimenti destinati allo scarto (indicativamente “i migliori dei peggiori”, se mi passate l’ossimoro).

La seconda e ultima riflessione, forse la più inquietante, riguarda la natura stessa dell’oggetto libro: senza scomodare Giorgio Cencetti, che già nel 1939 nel celebre articolo sull’Archivio come “universitas rerum” rilevava come “ai volumi di una biblioteca [fosse] connaturato il concetto di fungibilità”, vale a dire interscambiabili gli uni con gli altri (in opposizione all’unicità dei pezzi archivistici), balza agli occhi come nel modello della free little library un libro vale l’altro, risiedendo il suo valore non tanto nell’intrinseco ma nella sua funzione “sociale” di oggetto di scambio (e non tanto di elevazione / acculturazione, che è una conseguenza per certi versi accidentale). Se non fosse che, all’atto dello scambio, manca del tutto il corrispettivo per la transazione né del resto viene in alcun modo tenuto in considerazione il valore “venale” dell’oggetto libro. Giusto per continuare ad attingere a questa terminologia di ambito finanziario si potrebbe pacificamente parlare di “libro come commodity”, concetto quest’ultimo non a caso spesso associato a quello di fungibilità; per commodity infatti si intende “un qualsiasi bene o servizio scambiabile (leggasi: fungibile, n.d.r.) sul mercato, senza differenze qualitative e per il quale ci siano domanda e offerta”. Ne esce dunque un quadro in cui il libro, perlomeno se raffrontato all’approccio “patrimonialistico” tipico (peraltro talvolta con eccessi) delle biblioteche, viene de facto svalutato, privato della sua individualità (rappresentata dal numero progressivo d’ingresso) ed anzi, proprio perché “uno vale l’altro”, trattato come oggetto di poco o nullo valore e, di conseguenza, sostanzialmente privato di quel trattamento scientifico che invece potrebbe far ottenere al modello della free little library risultati interessanti. In conclusione è proprio l’approccio “liberistico”, mi si passi quest’ultimo accostamento al mondo dell’economia, caratterizzato dunque dalla convinzione implicita che il sistema si autoregolamenti e che, se lasciato libero di operare, dia il meglio dei suoi frutti, che rappresenta il grosso limite di questa per altri versi interessante esperienza.

Lettura sotto l’ombrellone

Ho sempre ritenuto, facendo dello sociologia spiccia lo ammetto, che l’Italia che si ritrova sotto l’ombrellone in agosto fornisca meglio di qualsiasi altra indagine demoscopica una fedele immagine di sé stessa.

Ciò non vale solo per gusti, mode, tormentoni musicali e via dicendo ma anche per le letture (questo o quel scrittore per intenderci) e per le abitudini di lettura stesse degli italiani.

Posto dunque che le osservazioni che seguono non sono scientificamente basate, quali sono i principali aspetti che balzano agli occhi “sbirciando” gli italiani sotto l’ombrellone?

La prima cosa che emerge è, contrariamente a quelle che sono le statistiche ufficiali, che gli italiani leggono eccome! Probabilmente lo faremo meno rispetto agli altri europei (mi ci metto in mezzo pure io), però è chiaro che nel Bel Paese – appena si ha un po’ di tempo libero a disposizione – la lettura è una pratica assai diffusa, aspetto che dovrebbe far riflettere su come ad incidere sulla scarsa propensione nostrana a tale pratica (sempre stando alle statistiche ufficiali) possano essere, piuttosto che fattori socio-culturali, fattori “ambientali” quali, per l’appunto, il poco tempo a disposizione il quale a sua volta potrebbe essere conseguenza di un rapporto sfavorevole, a livello di “sistema”, tra tempo libero e tempo del lavoro, il quale a sua volta potrebbe derivare a livello strutturale da una organizzazione troppo rigida degli orari di lavoro, di una cattiva logistica che ci impone di passare troppe ore nel traffico e via di questo passo.

Il secondo aspetto che risalta prepotentemente è l’assoluta preminenza – e vitalità vien da soggiungere – della carta rispetto al digitale: libri, giornali e riviste (cartacei, ca va sans dire) la fanno da padroni con percentuali bulgare rispetto ad e-reader e tablet, constatazione che non stupisce più di tanto nel caso dell’e-reader – da sempre un dispositivo di nicchia per lettori forti, probabilmente gli unici che hanno apprezzato le migliorie in fatto di impermeabilità che caratterizzano le ultime generazioni commercializzate – ma piuttosto in quello del tablet, il cui momento di fama (leggasi: iPad come oggetto “cool” da esibire ovunque) è probabilmente passato.

Diverso ovviamente è il discorso – e con questo arriviamo al terzo punto – se si decide di includere lo smartphone nel novero dei dispositivi di lettura: in tal caso ecco che i rapporti di forza si capovolgono e l’impatto del digitale sulle nostre abitudini (di lettura e non solo) appare davvero dirompente. Possiamo infatti non considerare “lettura” la sbirciatina che diamo, tra un selfie ed un messaggio su Whatsapp, alle news che Google o Facebook continuamente ci propongono? O quella di documenti, relazioni e via dicendo che ci arrivano in allegato via e-mail da parte di colleghi e collaboratori (il lato perverso dell’essere sempre connessi, per cui è impossibile staccare completamente dal lavoro…)? Parrebbe dunque trovare conferma sul campo la tesi di fondo contenuta nel libro “Le reti della lettura” (Editrice Bibliografica, 2017), ed in particolare nel contributo di Gino Roncaglia, secondo la quale – semplificando – non è che non si legge o si legge meno, semplicemente lo si fa in modo diverso rispetto al passato. La lettura, in buona sostanza, è sempre più mordi e fuggi, avviene in momenti “interstiziali” (in tram, in attesa alle poste o dal dottore) e, per converso, è tendenzialmente meno intensiva. Ne derivano, ma è un’ipotesi che andrebbe adeguatamente verificata, ripercussioni a cascata sul cosa si legge: è infatti probabile che il lettore X, consapevole di non avere molto tempo, inizierà una lettura che può essere esaurita nei pochi minuti disponibili (la notizia al volo di cui sopra oppure romanzi digitali a puntate appositamente concepiti).

Ecco dunque, per concludere, che potremmo assistere ad una “specializzazione” in base a supporto di lettura / oggetto della lettura / tipologia di lettore:
1) libro cartaceo tradizionale per letture che richiedono “impegno” (in termini di concentrazione e di tempo) da parte di lettori “medi” che, in momenti della giornata / periodi particolari dell’anno (= le vacanze agostane da cui ha preso il via questo post), possono dedicarsi intensivamente alla lettura;
2) e-reader per una minoranza di lettori forti autentici “divoratori” di libri di vario genere (narrativa ovviamente, ma anche saggistica, etc.);
3) smartphone come supporto “universale” cui fanno ricorso un po’ tutti (ma in primis i lettori deboli), per letture generalmente veloci e non impegnative.

Una schematizzazione che, va da sé, necessita per essere validata (o confutata) di uno studio più sistematico e che proprio nella mole di data generati può trovare un forte ausilio.

Dalla crisi di SoundCloud un campanello d’allarme per gli archivi musicali in cloud

La notizia l’ha data per primo Techcrunch: SoundCloud, “lo YouTube della musica”, si trova in serie difficoltà finanziarie e, con l’obiettivo di tagliare i costi, si accinge a licenziare il 40% del proprio personale.
Nel prosieguo del post, il blog tecnologico californiano si sofferma principalmente sulle questioni economiche, sull’analisi del perché il modello di business adottato non abbia funzionato, esplorando le possibili opzioni per il rilancio di questo universalmente apprezzato servizio. Solo in chiusura dell’articolo ci si pone la domanda, ovviamente centrale per il sottoscritto, della fine che faranno, in caso di chiusura definitiva, le migliaia di tracce audio finora caricate: a tale domanda non viene fornita risposta ma l’autore non manca di evidenziare di come si tratti in molti casi di “rarità” (i file audio caricati consistono infatti per la maggior parte di remix artigianali, podcast, esecuzioni live, etc.), soggiungendo, con una vena nostalgica, come a venir meno è una piattaforma che ha rappresentato e tuttora rappresenta un punto d’incontro per decine di musicisti indipendenti, stimolandone la creatività.

A tornare con decisione sul punto è Brian Feldman del New York Magazine: Feldman infatti ricorda che, dovesse chiudere SoundCloud, a sparire sarebbero non solo le tracce audio ma anche un’intera scena musicale (quella del cosiddetto “SoundCloud Rap”, genere caratterizzato da contaminazioni punk, emo, etc. sul quale ha scritto persino il New York Times e del quale riportiamo qui sopra un sample) con la relativa community (virtuale ma anche fisica), contraddistinta da specifici linguaggi, codici e stili. Il problema, per Feldman, non è pertanto esclusivamente di business ma anzi soprattutto “culturale” e questo perché “as we move creative scenes from cities and neighborhoods and onto the web, we outsource the publishing, storage, and archiving of their products to young, for-profit businesses — and therefore run the very serious risk of losing huge and important libraries of culture […]”. Ecco dunque che da più parti si invoca l’intervento di un cavaliere bianco che salvi l’azienda o, dovesse la situazione precipitare, almeno le tracce musicali fin qui caricate. Peccato che anche quest’ultima strada non sia esattamente indolore: secondo Jason Scott di Internet Archive per conservare “nel prevedibile futuro” (arco temporale, permettetemi, alquanto fumoso…) il petabyte di dati che costituiscono l’archivio musicale di Soundcloud, sono necessari da 1,5 a 2 milioni di dollari, cifra che, per un’organizzazione che vive essenzialmente di donazioni, non è così semplice racimolare.

In attesa di vedere l’epilogo di questa storia, tre mi pare siano i punti degni di essere messi in rilievo: 1) con l’avvento della cosiddetta musica liquida, vale a dire fruibile senza la presenza di un supporto fonografico tradizionale (sia esso CD, vinile oppure nastro), la “musica” – secondo un trend che come noto riguarda anche altre tipologie di materiali – non risiede più presso il soggetto produttore né tantomeno presso il generico fruitore bensì presso aziende private (com’è appunto il caso di SoundCloud) che spesso e volentieri impongono pesanti vincoli / limitazioni al loro ascolto (è ad es. risaputo che con servizi tipo Spotify oppure iTunes non si acquista la musica che si ascolta, bensì la si noleggia) 2) se chiude il servizio, viene in definitiva a mancare il contesto (che, in base ai principi archivisti, è non meno importante dei documenti stessi) che ha consentito la genesi e la formazione delle “canzoni”; ciò significa, per replicare idealmente a Jason Scott di Internet Archive, che non si tratta solo di reperire i soldi necessari per le relative risorse di storage ma di conservare la “piattaforma SoundCloud” tout court (!), il che, inutile dire, è affare leggermente più complicato 3) anche da questa vicenda emerge l’estromissione, o peggio ancora l’impotenza, degli istituti pubblici di fronte alle sfide poste dal digitale: nel caso italiano, ad esempio, l’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi (ex Discoteca di Stato), che in base alla Legge 106/2004 sul deposito legale dovrebbe provvedere alla raccolta “di tutti i beni sonori ed audiovisivi prodotti e distribuiti in Italia”, ben poco avrebbe potuto fare preventivamente e questo per il semplice motivo che, nel momento in cui ci si affida a servizi (peraltro stranieri) come SoundCloud, la produzione e distribuzione musicale non passa più attraverso le case discografiche che, finora, controllando il mercato avevano anche potuto fungere da collettore di quanto prodotto.

Il quadro sopra delineato risulta dunque alquanto cupo giacché è la natura stessa della musica liquida (punto 1) a renderne difficile, per quanto non impossibile, l’archiviazione; oltre agli aspetti legali, concorrono a rendere ardua questa “cattura” oggettive criticità tecnologiche (punto 2) e di inefficacia – ma vien quasi da dire inattuabilità – delle prescrizioni legislative (punto 3). Con queste premesse pare difficile pensare che, in futuro, potranno essere predisposti strumenti bellissimi come il portale “Archivi della musica”, capace di tessere le relazioni esistenti tra soggetti produttori (ad es. cantautori e compositori, cori, accademie e conservatori musicali dei quali vengono forniti profili biografici / istituzionali ed artistici) ed i relativi soggetti conservatori (fondazioni, associazioni, etc.), mettendo a disposizione relativi inventari e spesso un ricco corredo documentario, iconografico e sonoro. Va peraltro osservato come in questa direzione si stiano già muovendo servizi come SoundHound e Shazam: nati come app per dispositivi mobili capaci di riconoscere, fornendo i relativi cantanti, titoli e dati catalografici, le canzoni che si stanno ascoltando (motivo per cui a monte di questi servizi vi è uno sterminato archivio / database di canzoni), tali servizi hanno ampliato il proprio “raggio d’azione” finendo con l’aggregare alla musica i relativi testi, video (da Youtube) oltre a biografie dei cantanti / gruppi musicali.
A guardare l’evoluzione dei citati servizi (ai quali mi permetto di aggiungere DiscoGS per il raffinato livello di dettaglio catalografico al quale scende) vien dunque da sperare che, nel momento in cui il digitale mette in crisi istituti e prassi consolidate, esso sia in grado di far emergere nuovi strumenti che, benché in modo nuovo, esaudiscono immutate esigenze di “conservazione”!

La public library tra alternativa ed uniformazione

In questo blog spesso e volentieri ho affrontato tematiche che, perlomeno all’epoca in cui ne scrivevo, potevano essere considerate “di frontiera”: dall’impatto dirompente del cloud computing in archivi e biblioteche all’uso dei social network, dalla necessità che questi istituti adottassero strategie comunicative più raffinate (branding, marketing, etc.) alla sperimentazione di nuovi modelli gestionali (catalogazione diffusa, folksonomie, etc.) molteplici sono gli ambiti in cui ho spaziato.

In questo post voglio però esternare alcune mie perplessità: sarà infatti l’età che avanza oppure una sorta di reazione istintiva al “nuovo a tutti i costi” che periodicamente sembra impossessarsi della maggior parte di noi, ma la direzione che sta prendendo la biblioteca pubblica (ed in particolare quella di pubblica lettura) mi convince sempre di meno.
Se è vero che la biblioteca è un organismo che cresce, per scomodare Ranganathan e la sua quinta legge, e che come tale si adatta alla società nella quale essa è inserita, mi vien da chiosare che è altrettanto vero che, così facendo, essa corre il concreto pericolo di farne propri i difetti e le distorsioni.
Accade così che le biblioteche si facciano trascinare da mode o comunque da tematiche a mio avviso non esattamente “core” (penso, di questi tempi, ai big data, dei quali vanno comunque ammessi i vantaggi gestionali, ed all’universo wiki) e, aspetto che porta in sé un bel carico di contraddizioni, fanno propri i ritmi della società moderna.
Ad esempio ogni anno, con svizzera puntualità, proponiamo maratone di lettura e sfide all’ultimo libro: a me sta ovviamente bene promuovere il libro e la lettura, ma non rischia di passare il messaggio che la quantità (in una sorta di “bulimia da lettura”) prevale sulla qualità?
Analogamente miriamo a creare biblioteche sempre connesse, sociali, con prestito H24, etc.: anche in questo caso l’obiettivo, meritorio, è quello di “andare dal lettore” (ergo, interfacciandosi con quest’ultimo non più e non solo “de visu” ma anche attraverso i social network), offrendogli dei servizi in linea con le nuove possibilità tecnologiche ed alle correlate nuove modalità di fruizione / lettura (ebook su tutto) etc. Pure qui vale la considerazione fatta poc’anzi: se il fine è meritorio, il risultato non rischia di essere controproducente? La butto lì, provocatoriamente: la proposta della biblioteca ai cittadini non potrebbe (dovrebbe?) essere anche quella, alternativa, di offrire un’oasi di tranquillità, un luogo di maggior “distacco” e “rallentamento” dei ritmi?

Uno studio Nielsen sullo stato di salute dell’e-book nel Regno Unito, diffuso qualche mese fa, conferma che i lettori britannici (mercato maturo) si stanno per certi versi disaffezionando dal libro elettronico e ne individua la causa proprio nella necessità, specialmente da parte dei lettori più giovani e più connessi, di “staccare” dalla tecnologia e dai ritmi sempre più ossessivi che essa impone (“Young people [are] using books as a break from their devices or social media”).
Pertanto, prendendo atto di queste esigenze manifestate dai lettori, non può essere considerato con interesse un riposizionamento strategico, o più precisamente una diversificazione dell’offerta, che preveda, accanto al Wi-Fi gratuito la presenza di aree ad hoc in cui “disintossicarsi” da Internet e da tutto ciò che ci ruota attorno?
Dal punto di vista operativo ciò si traduce, banalmente, nel pensare e progettare spazi specifici: se oramai una ventina d’anni fa Vittorio Gregotti, in un suo saggio all’interno del volume “La biblioteca tra spazio e progetto” (Bibliografica, 1998, p. 23), proponeva di “dilatare ed articolare gli spazi dedicati alle occasioni di socializzazione” nella convinzione (in via di principio assolutamente condivisibile) che “solo restando collettivamente necessaria, la biblioteca potrà, anche dal punto di vista dell’architettura, avere anche in futuro un ruolo collettivo ed urbano significativo”, probabilmente tale affermazione andrebbe aggiornata ed integrata; in particolare credo che, nel momento in cui le relazioni sociali e la biblioteca si fanno virtuali, l’obiettivo di preservare la vitalità della biblioteca nel suo contesto (sociale, urbano, etc.) reale sia raggiungibile a patto di articolare maggiormente gli spazi, prevedendone appunto alcuni, accanto alle “tradizionali” sale di lettura, postazioni di studio, etc. in grado di fornire agli utenti momenti di stacco / distacco, di riflessione, oserei dire di meditazione. Non a caso il modello a cui penso si avvicina tremendamente a quello delle celle monastiche presenti negli scriptoria medievali (ma ad esiti analoghi potrebbero condurre postazioni immerse in parchi urbani). I benefici sarebbero molteplici e spazierebbero dalla qualità della lettura (e qui si apre la questione dell’ambiente non distrattivo che influisce sulle capacità di interiorizzazione), alla rielaborazione attiva (a questo punto su base individuale, anche se alla fase “collettiva” ci si può tranquillamente dedicare in un secondo momento!) fino alla genesi di nuove idee.

Concludo con una precisazione che può apparire banale: nell’Italia profonda, quella dei piccoli Comuni e dei paesi, che a ben guardare costituisce per larghi tratti ancora l’ossatura della Nazione (e non a caso pure del sistema bibliotecario), la predisposizione di simili spazi non è probabilmente necessaria. Lo è, al contrario, nelle realtà urbane medio-grandi ed ovviamente nelle metropoli e nei grandi agglomerati urbani: è qui che andrebbe seriamente presa in considerazione l’opportunità di predisporre (ipotesi: almeno una biblioteca per ogni polo / rete bibliotecaria?) simili spazi (o, se volete, chiamiamole pure “postazioni di lettura”, per quanto sui generis!). In definitiva ogni realizzazione va personalizzata il più possibile ed adattata allo specifico contesto, il che, e qui torniamo al punto di partenza, equivale a rifiutare l’uniformazione e l’alienazione verso la quale, con la corsa spesso non adeguatamente ponderata ed anzi realizzata “a prescindere” al digitale, la biblioteca pubblica sembra invece tendere.

POSTILLA. In questo post ho parlato essenzialmente di biblioteche: è a questi istituti, infatti, che è stato richiesto, negli anni, di svolgere compiti di socializzazione (biblioteche come centri sociali / culturali) che, probabilmente, esula(va)no dalla mission specifica. Negli archivi, invece, il problema è sempre stato il contrario: visti spesso e volentieri “burocraticamente” come mero luogo di detenzione di carte, i pochi (proporzionalmente, s’intende) utenti che vi si avventurano sono spesso tuttora trattati – con mentalità tipicamente ottocentesca – come impiccioni da allontanare! In questi istituti sì, ci vorrebbe una “terapia” di apertura al mondo che passa anche, ma non solo, attraverso il digitale!

E-reader, e-book ed audiolibri: un destino incrociato

L’arrivo sul mercato di alcuni nuovi e-reader rende interessante fare il punto della situazione circa lo “stato dell’arte” di questa classe di dispositivi; non si tratta peraltro di una questione squisitamente tecnica e di prestazioni, giacché dall’analisi delle loro caratteristiche e funzionalità è possibile ricavare utili indicazioni circa lo stato e le tendenze in atto nel “sottostante” mercato degli e-book.
Diciamo subito che, a guardare le due principali novità, ovvero il Kindle Oasis (presentato il 13 aprile) ed il Kobo Aura One (il cui annuncio è ben più recente, essendo avvenuto il 17 agosto scorso), la prima impressione è quella di una stasi generale, con ben poche novità di rilievo.

Entrambi gli e-reader sono accomunati da un form factor che, pur senza distaccarsi dal design iconico “a tavoletta”, ricerca nuove soluzioni al fine di assicurare una migliore lettura ed in generale un maggior comfort: ecco dunque che Amazon, pur mantenendo le dimensioni del display fisse a 6 pollici, amplia – in larghezza ed in spessore – la cornice presente sul lato destro allo scopo dichiarato di rendere l’impugnatura più salda ed ergonomica (la presenza, nel medesimo lato, di pulsanti fisici per il cambio di pagina a detta di Amazon consente la lettura con una sola mano) mentre Kobo, in modo assai più conservatore, non interviene nel frame ma si limita ad aumentare le dimensioni dello schermo portandole a 7,8 pollici. Rimanendo sullo schermo, entrambi i produttori apportano migliorie al sistema di illuminazione frontale mentre la risoluzione si assesta sui 300 dpi. Non minor sforzi sono poi stati riservati al contenimento dei pesi: nonostante la crescita “dimensionale” esso è comunque contenuto, fermandosi rispettivamente a 131/133 e 230 grammi (il Kindle Oasis, in ogni caso, risulta, a prescindere dalle minori dimensioni, nettamente più leggero).

Da quanto sin qui detto appare evidente come né Amazon né Kobo abbiamo presentato device particolarmente innovativi: entrambe le aziende, piuttosto, sembrano aver cercato di perfezionare i propri prodotti assecondando i desiderata dei propri clienti i quali, oramai è assodato, sono perlopiù lettori forti, dunque particolarmente esigenti e disposti a pagare cifre decisamente elevate rispetto a quelli che sono i prezzi degli e-reader. Il Kindle Oasis costa infatti ben 289,99 € mentre l’Aura One si ferma – si fa per dire – a 229,99 euro, vale a dire mediamente più del doppio di buona parte dei dispositivi presenti sul mercato.

Si tratta di una decisione, a ben guardare, obbligata: gli ultimi dati disponibili confermano come il numero complessivo di lettori digitali sia, a dispetto delle enormi aspettative coltivate negli anni passati, stazionario se non in calo e, tra di loro, solo una percentuale limitata e peraltro (verosimilmente corrispondente ai lettori forti) legga su dispositivi dedicati quali sono gli e-reader mentre gli altri, sempre più numerosi, fanno ricorso ad un mix di dispositivi (tablet, smartphone oppure il vecchio laptop/PC).

Evidentemente, mancando il traino del mercato, la spinta ad investire ed innovare da parte di colossi del calibro di Amazon e di Rakuten viene meno: di display a colori non si sente praticamente più parlare, le aspettative sollevate dagli enhanced ebook non sono state fin qui rispettate (ma almeno l’Aura One supporta l’ePub 3!), i sistemi operativi utilizzati sono rimasti sostanzialmente chiusi. Si tratta di aspetti che, se adeguatamente sviluppati, avrebbero potuto aumentare l’appeal degli e-reader salvandoli dal ruolo marginale al quale paiono oggigiorno destinati.
L’impressione che gli e-reader, ma in generale l’intero comparto del libro digitale, sia stato accantonato è rafforzata dalle strategie adottate dalla stessa Amazon in un segmento di mercato “collaterale” e che al contrario sta attraversando, in particolare oltreoceano, una importante fase di crescita.
Mi riferisco all’audiolibro, la cui quota negli Stati Uniti è arrivata al 14% e che ora Amazon sta spingendo anche nel Vecchio Continente: la pubblicità del servizio fornito da Audible, una controllata del gruppo di Seattle, si è negli ultimi mesi fatta assai martellante. Ma al di là dell’incalzante attività di marketing, ciò che balza agli occhi nella strategia del colosso di Seattle è la pressoché totale assenza di connessione con i vari servizi collegati all'”universo” Kindle. Infatti l’offerta della casa di Seattle in fatto di audiolibri si basa sulla fornitura di file audio che è possibile ascoltare, previa installazione di apposita app, attraverso smartphone, tablet od al più PC… ma NON via e-reader!
Inoltre Amazon sta replicando la politica di “chiusura” a suo tempo adottando con l’ebook: così come i libri digitali della casa di Seattle sono in formato proprietario .azw, analogamente i suoi audiolibri non sono, come sarebbe stato lecito attendersi, in formato MP3, bensì in formato .aa che “gira” solo in presenza dell’app dedicata! Gli utenti di Audible, come quelli del Kindle, sono dunque obbligati a rimanere dentro all’ecosistema di Amazon, con tutti i vantaggi e gli svantaggi connessi

Nell’ottica di questo post, quel che è più grave è che Amazon, così facendo, danneggia anche quelle aziende che, nonostante tutto, cercano di sperimentare: è il caso di Trekstor, il cui eBook Reader 3.0 si contraddistingue dal punto di vista estetico per il fatto di avere, similmente al Kindle Oasis, una pulsantiera sul bordo destro ma soprattutto per la tipologia di schermo (un TFT, Thin Film Transistor, ovvero una sottocategoria dell’LCD ed in quanto tale a colori) e per il fatto di poter riprodurre i principali formati audio: MP3, WMA ed OGG!
L’approccio di Trekstor, a mio avviso, è quello corretto: realizzare dispositivi che consentano indifferentemente agli utenti sia di leggere i propri e-book che di ascoltare i propri audiolibri.

Purtroppo, considerando l’attuale duopolio di Amazon e Kobo, il rischio che quegli operatori minori come la citata Trekstor oppure giganti decaduti come B&N (che con il recente Nook GlowLight Plus ha comunque dimostrato di voler ancora dire la sua, n.d.r.) vengano definitivamente estromessi dal mercato è elevato con tutte le conseguenze del caso: non solo infatti verrebbero affossati tutti quei tentativi di realizzare ereader ibridi ma, con essi, messo a repentaglio il più ampio processo di convergenza tra classi di dispositivi. Inoltre, aspetto non meno preoccupante,verrebbe pure influenzata pesantemente la futura evoluzione degli intimamente connessi mercati del libro digitale e dell’audiolibro.

Il potenziale inespresso di archivi e biblioteche (e la necessità di una maggior visibilità)

Dutch Institute for Picture & Sound (Hilversum, the Netherlands)

Dutch Institute for Picture & Sound (Hilversum, the Netherlands) by Frans Sellies, on Flickr

In un articolo apparso su Il Sole 24 Ore di qualche giorno fa vengono riportati i risultati di un interessante studio condotto dal CESTIT dell’Università di Bergamo nel quale si evidenziano gli ottimi risultati, in termini di vendite e di visibilità, ottenuti dalle sempre più numerose aziende vitivinicole che legano la propria immagine ed il proprio “prodotto” all’arte ed, in generale, alla cultura.

Si tratta, argomenta l’estensore dell’articolo, di un legame di vecchia data che si è declinato nel tempo secondo varie modalità: dalle performance artistiche nel vigneto alle cantine progettate dalle archistar, dal contributo di artisti e designer nell’elaborazione delle etichette delle bottiglie (ed in generale del packaging) alla creazione di collezioni d’arte stabili, fino al caso limite del finanziamento di interventi di restauro di opere antiche e/o beni culturali (a riguardo viene portato l’esempio del restauro del tempio di Selinunte).
Il ritorno di tali “politiche”, come anticipato, è lusinghiero: le aziende che hanno investito in un packaging e/o etichetta “artistica” percepiscono un aumento delle vendite del 40%, con una visibilità del marchio che sale in parallelo del 60%; quest’ultimo valore arriva al 92% in caso di investimenti in produzioni culturali e/o arti figurative ed addirittura al 100% qualora ci si sia impegnati nel restauro di beni culturali.
Trova dunque piena conferma l’assunto che l’arte, ma si può a buon diritto affermare la cultura tout court, possiede un notevole appeal, tale da renderla, qualora utilizzata con sapienza, efficacissimo strumento di marketing.

Vi starete a questo punto domandando qual è il nesso, in tutto questo discorso, con archivi e biblioteche; in effetti un collegamento diretto NON ESISTE, ed è proprio questa fragorosa assenza che dovrebbe indurci a porci qualche domanda sul perché queste particolari tipologie di beni culturali, benché dotate di enormi potenzialità, non riescano a suscitare un appeal non dico analogo, ma nemmeno paragonabile rispetto a quello riscosso, giusto per riprendere il contenuto dell’articolo che ha ispirato questo post, dalle arti figurative. Com’è possibile, giusto per dirne una, che il mondo dell’enologia/vitivinicoltura non cerchi “un aggancio” con gli archivi e le biblioteche nonostante questi ultimi, nel corso dell’Expò di Milano (come si ricorderà dedicato al tema dell’alimentazione), abbiano concretamente dimostrato di saper proporre interessanti itinerari “enogastronomici” tra le carte da essi conservate?

La risposta a tale domanda ovviamente non è univoca ma sono personalmente convinto, a costo di apparire riduttivo, che un elemento che gioca fortemente a discapito di archivi e biblioteche sia quello delle loro sedi.
Posto infatti che un’autentica e strutturata “politica edilizia” in Italia non c’è mai stata (fatto salvo il periodo fascista/razionalista per gli archivi e qualcosa negli anni Settanta dello scorso secolo per le biblioteche, in contemporanea con la creazione delle Regioni), questi istituti hanno sede nella rimanente, stragrande maggioranza dei casi all’interno di palazzi storici, spesso e volentieri di epoca medievale o al più moderna (un tour virtuale con Google Earth è sufficiente per farsi un’idea). Intendiamoci, non sto qui facendo l’equazione palazzo storico = antico = vecchio = brutto, in quanto non la condivido; sto semplicemente sostenendo che queste tipologie di sedi, per quanto ricche di fascino e trasudanti di storia, anche a voler sorvolare sugli oggettivi limiti funzionali (inevitabili, data l’epoca di progettazione, e del resto difficilmente superabili mediante restauro, dati i vincoli esistenti), sono nella maggior parte dei casi troppo solenni ed austere e, conseguentemente, non invogliano i cittadini ad entrare e men che meno a legare ad esse la propria immagine.

I sempre più frequenti casi di fondi archivistici che finiscono non, come sarebbe naturale e logico pensare, presso archivi bensì, per esplicita volontà dei loro produttori, presso fondazioni o musei, stanno lì a testimoniare questa scarsa “attrattività”. L’ulteriore constatazione che tali fondazioni e musei sono ospitati in edifici moderni ed avveniristici (ultimo episodio in ordine cronologico a far mugugnare gli archivisti è stato la donazione al MAXXI di Roma del proprio archivio da parte dell’architetto Paolo Portoghesi), a mio avviso conferma l’ipotesi sopra formulata.
Tra l’altro va precisato che non sono contrario a priori a questa “contaminazione” tra tipologie di beni culturali: il fatto che libri, quadri, archivi, sculture, installazioni digitali, etc. trovino sempre più spesso “ricovero” nel medesimo luogo fisico non è uno scandalo se a ciascuna tipologia viene riservato il corretto trattamento scientifico (fermo restando poi che in letteratura stiamo assistendo all’estensione del dialogo dal coordinamento MAB “a tre” – e che vede la partecipazione di musei, archivi e biblioteche – a quello allargato LAMMS, ovvero coinvolgente Libraries, Archives, Museums, Monuments & Sites!). Ciò non rappresenta uno scandalo tanto più in considerazione del fatto che non si tratta di una prima assoluta: storicamente infatti qualcosa di analogo, in Italia, è avvenuto nei decenni successivi all’Unità, allorquando documenti, libri e “memorabilia” legati a protagonisti del Risorgimento vennero raccolti e tenuti assieme a dispetto delle varie leggi, varate in quegli stessi anni, che ne disponevano l’assegnazione, a seconda dei casi, rispettivamente ad archivi, biblioteche e musei.

In sostanza dunque non critico il fenomeno in sé ma la sua unidirezionalità, la quale va tutta a discapito degli archivi ed, in subordine, delle biblioteche; in aggiunta a ciò mi “indispettisce” la motivazione di natura sostanzialmente “estetica” addotta per snobbare queste due tipologie di istituti. Sono peraltro del parere (ahimé!) che si tratti di una tendenza difficilmente invertibile giacché, nel caso di archivi e biblioteche, una mera operazione di restyling non è sufficiente: per quanto si tratti di un’azione da compiere a prescindere (in tal caso sono da prendere come riferimento non solo i modelli nordici, quali ad esempio il nuovissimo Astrup Fearnley Museet di Oslo od il Baltic Centre of Contemporary Art di Newcastle, ma anche il latino Reina Sofia di Madrid), i vincoli di natura logistica e “funzionale” ai quali soggiacciono archivi e biblioteche (penso in particolare alla necessità di disporre di enormi depositi e di adeguati spazi per movimentare i pezzi) a mio modo di vedere sono tali da rendere oggettivamente impari la sfida con gli altri istituti presenti nel settore dei beni culturali.
Giusto per intenderci, ritengo che nel prossimo futuro sarà sempre più frequente incappare in musei “potenziati” da snelli archivi e da centri di documentazione / biblioteche tematici piuttosto che in archivi, con la loro massa sterminata di documenti, ulteriormente “appesantiti” da corpose biblioteche e collezioni di varia natura.

Se dunque gli elementi di fondo sembrano giocare a sfavore di archivi e biblioteche, non mancano neppure i motivi di ottimismo. Questi ultimi si fondano soprattutto sulla constatazione di come, a fronte di contenitori che (per usare un eufemismo) spesso e volentieri “lasciano a desiderare”, il contenuto sia di prima qualità. Giusto a titolo esemplificativo sono da evidenziare i seguenti aspetti che, parzialmente riprendendo l’articolo giornalistico dal quale abbiamo preso spunto, rappresentano altrettanti punti di forza insiti nel materiale presente all’interno di archivi e biblioteche:

  • la capacità di ricostruire / ripercorrere / narrare la storia del territorio;

  • la capacità di ricostruire / ripercorrere / narrare la storia dei i marchi (e delle aziende e delle persone che ci stanno dietro);

  • la capacità, in generale, di raccontar storie / (hi)storytelling;

  • la presenza, specie negli archivi e nelle biblioteche del Novecento, di materiali audio / video / multimediali particolarmente adatti ad una loro rielaborazione e riutilizzo in chiave creativa.

  • In conclusione bisogna dunque riconoscere che il potenziale c’è anche se, nel contempo, bisogna ammettere che fintantoché non “piaciamo” alla gente (o meglio, fino a quando non riusciamo a farci piacere), è inutile sperare che a qualcuno importerà del nostro destino! Finiremo dunque tutti nel dimenticatoio, con sempre meno stanziamenti di fondi pubblici ed ancor meno donazioni di privati.
    Entreremo, in altri termini, in una spirale negativa che condurrà alla progressiva ghettizzazione di archivi e biblioteche, secondo un trend per larghi tratti già intuibile nel caso degli archivi: è infatti sempre più frequente che, per motivazioni economiche (leggasi costo dei locali), questi ultimi – specie quelli di deposito – finiscano in grigi “capannoni” edificati in località periferiche, difficilmente accessibili tanto dall’utenza interna quanto da quella interna e spesso privi di quella serie di servizi imprescindibili per assicurare un minimo di fruibilità. In questo senso va sottolineato con forza come il passaggio al digitale costituisce un duplice pericolo: la realizzazione dei data center, nei quali si accumulano gli archivi e le biblioteche digitali, da un lato rendono inutili, agli occhi degli utenti, le sedi fisiche, dall’altro spingono per una loro espulsione dai centri cittadini. Inutile dire che, allontanati dalla vista dei cittadini, privati di un qualsivoglia elemento di attrattività “estetica”, per gli archivi e per le biblioteche il futuro si farebbe più incerto che mai. Un ulteriore motivo per impegnarsi a fondo affinché gli archivi e le biblioteche abbiano, anche dal punto di vista “edilizio”, la necessaria visibilità.

Ispirati dagli Archivi

Da socio ANAI quale sono, non posso che contribuire a diffondere l’iniziativa Ispirati dagli Archivi, una settimana di iniziative per ricordare l’importanza degli archivi e della corretta gestione della documentazione:

Ispirati dagli Archivi.

Ispirati dagli Archivi

Continua sul sito della manifestazione per leggere l’intero manifesto…

Instagram in biblioteca

Biblioteca Centro de Arte Reina Sofia (Madrid)

Biblioteca Centro de Arte Reina Sofia (Madrid)

Dell’utilizzo dei social network in archivi e biblioteche si parla e si scrive in lungo ed in largo: Facebook e Twitter, in particolare, sono tra gli strumenti che gli esperti indicano come i più efficaci, il primo (solo per enunciare i principali pregi) in virtù della enorme base di utenti e della possibilità di pubblicizzare e promuovere eventi inserendo foto, video, etc. a corredo, il secondo soprattutto per l’immediatezza e la rapidità d’uso derivante dai 140 caratteri massimi ma anche per la potenza dell’hashtag cancelletto (#) come aggregatore tematico.
Sulla scorta di queste considerazioni non stupisce che negli ultimi anni numerosi archivi e biblioteche abbiano attivato account istituzionali di questi ultimi due servizi mentre altri, che richiedono maggiore impegno e maggiori competenze tecniche (penso a Youtube) oppure che meglio si adattano a specifiche tipologie di istituti (penso di nuovo a Youtube per archivi contemporanei con importanti fondi audiovisivi o a Flickr per quegli archivi e quelle biblioteche che conservano ricche raccolte fotografiche), sono rimasti decisamente meno diffusi.
In questo panorama abbastanza nitido, in verità se vogliamo per certi versi quasi scontato, ritengo che un’anomalia ingiustificata sia rappresentata dallo scarso utilizzo di Instagram, il social network nato nel 2010 come app per dispositivi iOS (quindi in ambiente mobile, aspetto non secondario, e solo successivamente divenuta utilità da desktop PC!) e caratterizzato dalla possibilità di scattare foto con la fotocamera presente sul device in uso, applicandovi poi filtri in alta definizione e, aspetto non meno importante, di taggarle, di condividerle con amici e di commentarle.
Instagram, forte della sua base di 400 milioni di utenti attivi, oramai ha scalzato Twitter (fermo a quota 320) nelle preferenze di molti utenti: posto che i dati in circolazione vanno maneggiati con cautela (non bisogna infatti confondere utenti attivi con utenti registrati!), bisogna ammettere che i numeri sono netti, al punto che secondo molti il 2016 sarà l’anno di Instagram, il quale gode di un’appeal senza pari tra le giovani generazioni, stanche di Facebook.
Ma quali sono i punti di forza di Instagram, tali da averne hanno decretato il successo? Precisato che si tratta ovviamente anche di un fenomeno di moda (numerosissime sono le celebrità presenti in Isntagram con propri profili, seguiti da milioni di fan; n.d.r), è necessario riconoscerne le indubbie qualità che a mio avviso sono le seguenti: 1) punta sulle fotografie, ed in tempi di società dell’immagine non c’è miglior via per assicurarsi il successo 2) da Facebook riprende funzionalità quali i “Like” ed i commenti (con tanto di faccine in stile Whatsapp) 3) da Twitter copia il meccanismo dell’hashtag, a riguardo del quale va precisato come attualmente non vengano forniti trend topics elaborati sulla base delle parole chiave più utilizzate in un dato momento come fa Twitter; all’utente, man mano che li scrive, vengono semplicemente suggeriti tag “standardizzati” che risultano ugualmente fondamentali per creare quella trama di collegamenti tra le proprie foto e quelle postate da altri utenti ed etichettate con gli stessi termini 4) da Foursquare recupera il principio della georeferenziazione: in base al luogo in cui ci troviamo (= dove si trova il nostro smartphone), Instagram ci propone una serie di foto scattate nelle prossimità.
In sostanza Instagram ha fatto proprie quelle che sono le principali caratteristiche degli altri social network, fondendole sapientemente in un’unica app che, venendo a noi, sono convinto potrebbe dare molte “soddisfazioni” qualora utilizzata in ambito bibliotecario.
Del resto il nesso tra biblioteche e mondo dell’immagine/foto è forte non solo perché esse incentrano principalmente la propria attività su un oggetto, il libro, che è fruibile (perlomeno nella nostra epoca) in primis mediante la vista; lo è anche perché il libro stesso ha una valenza estetica (nella copertina, nelle miniature, nelle illustrazioni) tale da far apparire quasi spontaneo “fotografarlo”.
Non sto chiaramente scoprendo nulla: basta infatti scorrere i tweet di una qualsiasi biblioteca per rendersi conto che molti bibliotecari già lo fanno, a volte inconsapevolmente altre con lo scopo pratico di far conoscere le nuove accessioni. Il punto è che su Twitter esse si confondono in un mare di teneri gattini e cuccioli vari (purtroppo accade ancora!), di locandine di eventi, di avvisi, di adesioni a campagne di mobilitazione varie, etc.
In altri termini la fotografia, in Twitter, perde il proprio valore aggiunto; per contro su Instagram vi è la possibilità di inserirla in discorso / flusso narrativo dotato di un certo valore estetico (non me ne vogliano i fotografi di professione, ma effettivamente su Instagram ci sentiamo un po’ tutti artisti!) e soprattutto dotato di una coerenza interna e con la “social media strategy” definita dall’ente, senza peraltro che ciò (e qui sta il bello) precluda ulteriori, non previsti, percorsi.
Ad esempio, se clicchiamo sull’immagine della biblioteca del Centro de Arte Reina Sofia di Madrid pubblicata in questo post, ecco che finiamo sulla stessa foto caricata nel mio profilo Instagram; qui possiamo cliccare ulteriormente sull’hashtag #library e veder comparire alcune foto che ritraggono le più belle biblioteche al mondo oppure sull’hashtag #reinasofia, al quale sono associate foto scattate dagli altri utenti nelle quali ricorre sì il medesimo tag ma che hanno un soggetto completamente diverso dal mio. Ecco dunque che, partendo dalla foto di una biblioteca, scopro che al Reina Sofia è esposto il celebre Guernica di Pablo Picasso ma anche, attraverso un’altra foto, pure che è in corso una mostra temporanea su Constant Nieuwenhuys, personaggio poliedrico ed autore del libro New Babylon.
Appare evidente come Instagram, in pochi passaggi, sia stato in grado di farci compiere un viaggio tra diverse arti e discipline, fornendoci peraltro ulteriori spunti di lettura!
Le potenzialità dello strumento dunque ci sono tutte, resta da capire come sfruttarle al meglio; la palla, a questo punto, passa ai social media strategist, figure delle quali le biblioteche devono a mio avviso dotarsi (qualora ciò non fosse possibile, è necessario che i bibliotecari apprendano i rudimenti della materia), ed ai quali spetta il compito di inserire Instagram nella più vasta strategia comunicativa della biblioteca / dell’Ente, affiancando e non sostituendo gli altri social media.
A riguardo, pur non essendo un esperto, mi permetto di fornire alcuni semplici, finali, suggerimenti operativi: A) fatti salvi casi specifici, è auspicabile che le foto pubblicate su Instagram vengano condivise automaticamente anche sugli altri social network nei quali si è presenti; B) nel momento in cui dobbiamo decidere su cosa basare il nostro discorso narrativo, prenderei in considerazione i seguenti tre: 1) i libri (= le raccolte), 2) le sedi e 3) le persone (utenti / bibliotecari), ovvero i tre elementi che incidentalmente sono a fondamento della biblioteconomia e che, con le loro interconnessioni quotidiane, reali e virtuali, ne assicurano la vitalità.

L’insostenibile leggerezza del cloud

ADrive

ADrive

Nel mio libro di cinque anni fa sul ruolo e sulle potenzialità del cloud computing in archivi e biblioteche, affrontavo gli impieghi di questo paradigma tecnologico – oggi conosciuto pure dai bambini – non solo nell’ambito di questi due istituti ma, in modo sperimentale (così come, piccolo inciso, sperimentale voleva essere il ricorso al self publishing…), pure nel contesto degli archivi digitali di persona.
In modo molto pratico e concreto, al fine di stabilire se gli spazi di memoria messi a disposizione sulla nuvola possedevano i requisiti previsti dalla teoria per essere riconosciuti o meno come archivi, descrivevo il funzionamento della versione free di tre servizi, vale a dire Memopal, ADrive e Dropbox (Google doveva ancora lanciare il suo Drive, giusto per capire quanto i tempi fossero pionieristici…).
L’e-mail arrivatami qualche giorno fa da ADrive, servizio che nel frattempo ho continuato seppur sporadicamente ad usare, e con la quale mi si avvisa che nell’ottica del continuo miglioramento e potenziamento del servizio la versione Basic a partire dall’1 gennaio 2016 scomparirà (proponendomi nel contempo di abbonarmi alla versione Premium a prezzo vantaggioso), mi ha spinto a controllare come sono messi i summenzionati servizi a distanza di un lustro (nota: per chi volesse rileggersi quanto scritto a suo tempo nel libro, di riferimento è il par. 3.4).

Diciamo innanzitutto, e non è poi una cosa così scontata considerata l’elevata mortalità delle aziende hi-tech, che tutti e tre i servizi sono vivi e vegeti, nel senso che non sono stati chiusi né oggetto di operazioni di merge & acquisition; anzi essi, in linea con il settore, godono di ottima salute ed in particolare Dropbox ne è uno dei leader indiscussi.
Ma veniamo al sodo! Memopal continua ad offrire, nella versione gratuita, 3 GB di spazio di memorizzazione sulla nuvola; pure a scorrere le specifiche di sicurezza non molto è cambiato: utilizzo dei protocolli HTTP / HTTPS ed SSL, RAID 5 e tecnologia MGFS (Memopal Geographical File Systems), scelta in capo all’utente dei file da caricare, possibilità di sincronizzazione multidevice (a prescindere dal sistema operativo), etc. La novità è data dalla posizione di “preminenza” data alle foto; così infatti recita il sito: “nella nostra web app tutte le foto sono organizzate in un album, indipendentemente dalla loro posizione nelle tue cartelle”.
Passiamo ora ad ADrive: come ampiamente ricordato, la versione Basic da 50 GB sta andando in pensione e le farà posto quella Premium da 100 GB (che però possono crescere fino a 20 TB ed oltre); l’interfaccia grafica è stata migliorata e sono state rilasciate app per dispositivi mobili iOS ed Android. Per il resto, oggi come cinque anni fa, si fa leva sulla possibilità di editare sulla nuvola (anche condividendo il lavoro) e di caricare file di grandi dimensioni (il limite è passato da 2 a 16 GB!).
Veniamo infine a Dropbox: lo spazio a disposizione nella versione gratuita di base è tuttora fermo a 2 GB, viene posta particolare enfasi sulle misure di sicurezza adottate (crittografia dei dati archiviati con AES a 256 bit e protezione di quelli in transito con tecnologia SSL/TLS, concepita per creare un tunnel sicuro protetto da crittografia AES a 128 bit o superiore) ma non si specifica la localizzazione dei data center nei quali materialmente finiscono i dati. A proposito di questi ultimi, anzi, si afferma esplicitamente che l’azienda si riserva di spedirli in qualsiasi parte del mondo ma nel rispetto, beninteso, della normativa cd. “Safe Harbour”. Da sottolineare che, diversamente a cinque anni fa, non ho trovato alcun riferimento al fatto che Dropbox si avvalga dei server di Amazon ma alcuni passaggi presenti nella pagina poc’anzi citata mi fanno ritenere che ora Dropbox tenga tutto presso di sé.
Da rimarcare invece come l’azienda californiana, in modo encomiabile, non solo abbia tenuto in vita app per sistemi operativi che contano quote di mercato oramai irrisorie (come Blackberry) ma ne abbia realizzato di ulteriori per Kindle Fire di Amazon (che, come noto monta una versione altamente customizzata di Android) e per il mondo Microsoft (Windows Phone e tablet con Windows). Per finire va sottolineato come pure Dropbox, un po’ come Memopal, abbia tentato di valorizzare le foto salvate al suo interno dai suoi utenti: nello specifico era stata lanciata, con una sorta di spin-off, l’app Carousel, la quale presentava in modo cronologico tutte le foto caricate. Purtroppo l’avventura non deve essere andata esattamente come sperato se, proprio pochi giorni fa, ne è stata annunciata la chiusura per il 31 marzo 2016.

Benché Dropbox si affretti a precisare che le foto non adranno perse ma semplicemente rientreranno all’interno dell’app “originaria”, la quale verrà nel frattempo potenziata con funzionalità ad hoc per le foto, è inutile dire che questa notizia, unita a quella di ADrive, non contribuisca a far sorgere la necessaria fiducia per i servizi di cloud storage. Se dal punto di vista tecnologico questi servizi paiono essere complssivamente affidabili (non si sono infatti sin qui verificate clamorose falle nella sicurezza come capitato in molti settori contigui), le perplessità permangono per ciò che concerne la “cornice legale” e la durata nel tempo del servizio: come si è visto esso è intimamente legato – com’è peraltro normale che sia, trattandosi di aziende private – a logiche di mercato e nel momento in cui la profittabilità viene meno oppure la versione gratuita diviene non più sostenibile (oppure ha semplicemente assolto alla sua funzione “promozionale” per attirare nuovi utenti), semplicemente la si chiude senza tanti giri di parole.
Tutti fattori che, facendo un’analisi costi/benefici, a mio avviso dovrebbero indurre una buona fetta degli utenti ad optare per soluzioni di personal cloud che, benché abbiano un costo, forniscono ben altre garanzie.